villa frida

Palazzo del XIX secolo, luogo di spunto per conversazioni su storia, arte, scienza e idee tra due secoli.


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Racconto musicale del giardino italiano

 

Matinée musicale domenica 27 ottobre 2019 ore 10.30


Performance di interazione e dialogo tra musica ed estetica dei giardini. 

Musicisti e costruttori di giardini hanno dato vita nei secoli ad espressioni artistiche influenzate dalle tematiche del tempo. Il Quartetto Rosa Thea e la cultrice di giardini Anna Smania hanno cercato insieme di sondare gli aspetti comuni alle due manifestazioni artistiche nel contesto italiano, dando vita ad una inedita performance che vede esecuzioni musicali alternate a brevi interazioni di dialogo tra le due forme espressive.

Il Concerto prevede racconti sull’evoluzione nel tempo del giardino e della
musica italiani, evidenziando le peculiarità di entrambe le arti attraverso un’ideale passeggiata lungo i secoli: dall’Hortus conclusus del medioevo fino alla cura dell’incolto dei giorni nostri.

 

Raffaella Chiarini, flauto

Maria Campagnaro, violino

Marcella Campagnaro, viola

Anna Campagnaro, violoncello

Musiche: F. Landino, C. Monteverdi, A. Vivaldi, G. Rossini,

G.Verdi, P. Mascagni,  G.Sollima

 

 

 


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FESTA DELLE ROSE

 

Matinée musicale domenica 12 maggio 2019 ore 11.00

” FESTA DELLE ROSE IN MUSICA”

      La stagione di fioritura delle rose antiche collezionate in Villa Frida
sarà l’occasione per un omaggio musicale del Quartetto RosaTea

L’ensemble RosaTea nasce nel 2018 dall’interesse per la musica da camera che da sempre accomuna le componenti.

Con l’intento di divulgare il vasto repertorio per la formazione, RosaTea trae il suo nome dalla comune passione per le rose. La scelta di questa delicata specie, che preferisce un’esposizione in pieno sole, è dettata dal desiderio di illuminare un repertorio spesso trascurato.

Le musiciste, assieme ad una studiosa di giardini storici, stanno ultimando un progetto che include il racconto dell’evoluzione del giardino storico italiano attraverso musiche e testi di autori italiani.
Affiancano alla professione di docenza in Conservatorio e al Liceo Musicale, attività concertistica in orchestra e gruppi da camera.

Raffaella Chiarini, flauto

Maria Campagnaro, violino

Marcella Campagnaro, viola

Anna Campagnaro, violoncello

Musiche di F. Landino, J. Bedyngham, C. Monteverdi, A. Vivaldi, W.A. Mozart, G. Rossini, P. Mascagni, A. Piazzolla.

 

VILLA FRIDA via Roma 18 – Castello di Godego (TV)

http://www.villafrida.wordpress.com

 


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INASPETTATE COINCIDENZE: ETTORE TITO A SAN FRANCISCO 1915

Firenze, dicembre 2018.

Mostra al Museo Salvatore FerragamoGli anni dal 1915 al 1927, trascorsi da Salvatore Ferragamo in California, sono la fonte d’ispirazione della nuova mostra al Museo Salvatore Ferragamo che analizza la presenza degli italiani in quella regione e l’influenza che esercitarono in svariati settori, dall’arte all’artigianato e alla nascente industria cinematografica.
Il percorso ha inizio con la Panama-Pacific International Exposition a San Francisco nel 1915, dove il padiglione italiano progettato da Marcello Piacentini consolida l’apprezzamento degli americani per l’arte e l’architettura del Bel Paese” dalla presentazione della mostra.
Nella parte iniziale della mostra di Firenze, uno schermo proietta il film dei fratelli Taviani “Good morning Babilonia” dove due fratelli emigrati dall’Italia nel 1911, provenienti da una famiglia toscana di artigiani e restauratori di chiese, trovano lavoro nel padiglione italiano dell’Esposizione Internazionale di San Francisco. Da lì la loro bravura tecnica, unita ad un pizzico di sfrontatezza e di fortuna, li porta a lavorare per il regista David Griffith, che sta progettando il film “Intolerance” e che cerca degli scenografi italiani.
Salvatore Ferragamo, per le sue abilità nella lavorazione delle scarpe, si introduce e trova parecchio lavoro negli ambienti cinematografici della nascente Hollywood  in quanto le numerose comparse dei primi colossal dei film di Griffith avevano bisogno di notevoli quantità di calzature. La sua storia viene ad assomigliare così a quella del racconto  dei fratelli Taviani nel film “Good Morning Babilonia“.

Manifesto dell’Esposizione Internazionale di San Francisco del 1915

Nell’occasione dell’Esposizione Internazionale di San Francisco del 1915  “E stato conferito il “GRAN PREMIO” per la pittura a Ettore Tito, che espone cinque tele di solida composizione e ricca sostanza coloristica…”Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo-Bollettino d’arte Agosto 1915.

Avevo già avuto modo di citare in questo blog il pittore veneziano Ettore Tito (1859-1941) in quanto aveva disegnato per Ferruccio Macola la copertina del libro:  “L’Europa alla conquista dell’America Latina” del 1894, diario di viaggio da Genova verso Santos in Brasile.

Disegno di Ettore Tito

La copertina del libro è ciò che lega E.Tito a questo blog ed è poca cosa;  diverse sono le sue opere che si possono apprezzare in ambiti diversi.
Se si ha l’occasione di andare a Venezia, per esempio, ed entrare nella chiesa degli Scalzi, vicino alla stazione dei treni, si può osservare un’opera di E.Tito rivolgendo lo sguardo verso il soffitto della chiesa.

 

 

 


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L’EMOZIONE DEL TEMPO

Il titolo si ispira a quanto espresso da Carlo Rovelli nel libro “L’ordine del tempo“.
Dopo aver spiegato che non ha alcun senso parlare di tempo assoluto ma di combinazioni di eventi casuali più o meno probabili, egli aggiunge che :
Il tempo è la forma con cui noi esseri, il cui cervello è fatto essenzialmente di memoria e previsione, interagiamo con il mondo, è la sorgente della nostra identità. E del nostro dolore.”
E ancora:“Forse l’emozione del tempo è precisamente ciò che per noi è il tempo.”

Queste riflessioni mi hanno fatto ripensare alla motivazione della nascita del blog ed al mio perseverare nel cercare tracce del passato proiettate nel futuro. Si tratta di una comune ricerca umana delle emozioni del tempo?
Come già ebbi modo di scrivere in un articolo del 2012, l’idea del blog nacque per caso o forse era già scritta nella mia mente.
Mi capitò di vedere il film scritto e diretto da Nora Ephron :” Julie & Julia” .
Julie, personaggio oggi realmente vivente, ispirandosi alle ricette culinarie di Julia Child vissuta 50 anni prima, comincia a costruire un blog nel quale racconta le avventure culinarie che le succedono quando mette in pratica le ricette della sua musa ispirarice Julia.
Julia non esiste più ma è reale nella mente di Julie. Il passato è presente.
Non conosco il motivo per cui a volte capita che, inspiegabilmente,  una serie di coincidenze e circostanze ci  portino ad occuparci di persone con le quali non abbiamo avuto un contatto fisico ma che, nonostante questo, sentiamo molto presenti, nonostante siano vissute anni prima di noi.
Secondo quanto scrive Christof Koch nel libro “Una coscienza“: “Perlomeno in laboratorio, il cervello decide ben prima della mente; l’esperienza cosciente di volere un semplice atto – la sensazione di agency o di essere l’autore-  è secondaria alla causa reale.”  Come si forma la decisione rimane inconscio.

Fu così che avvenne: nel 2012, in un giorno di inizio primavera, senza nessuna motivazione apparente, scrissi in Google il nome Sofia Felissént.  Volevo accostare un’immagine ad un nome che nel passato, casualmente, mi era capitato di sentire perché aveva vissuto un lungo periodo in Villa Frida, da quando si era sposata nel 1880.  Lo potevo ben fare anni prima, ma solo in quel giorno  l’ho cercato.
Ecco l’immagine che trovai: un solare ritratto di Sofia intitolato “Dopo pranzo alla Moncia” (una trattoria che tuttora esiste alle porte di Treviso), opera di Giovanni Apollonio attualmente esposta al museo Bailo di Treviso.

Come già ebbi modo di dire, sotto il profilo umano è intrigante la storia della sua vita, trascorsa tra il 1858 e il 1943, per le sue relazioni con il mondo dell’aristocrazia dell’epoca, con la politica, con gli Irredentisti e D’Annunzio, con Ardengo Soffici; ma ancora più interessante, in relazione a Villa Frida, è il suo legame con l’arte tra la fine dell’800 e la prima metà del 900.

Villa Frida presenta notevoli tracce dell’interesse per l’arte di Sofia Felissent.
A distanza di tempo penso che la presenza di così tanti diversificati dipinti distribuiti nella varie stanze (vedi catalogo: “Gli affreschi nelle ville venete. L’ottocento” ed. Marsilio) sia da ricercare non solo nel gusto eclettico che caratterizzava l’arte veneta di fine ottocento ma anche nell’interesse e nelle tante frequentazioni che Sofia Felissent aveva nell’ambiente artistico, in particolare trevigiano. Con tutta probabilità è questo il motivo per cui l’attribuzione dei dipinti di Villa Frida, in prima istanza attribuiti in generale a  Noè Bordignon, ad un esame più attento viene rimandata a più autori di cui se ne vede affinità.
A titolo di esempio confrontate queste due foto: la prima appartiene ad un dipinto di Eugenio Moretti Larise presente sulla facciata di villa Buzzati a Visome, Belluno, la seconda è la foto di un dipinto, un po’ manomesso dal tempo,  presente in Villa Frida, di autore non conosciuto; si tratta di due immagini speculari. L’osservazione è stata fatta dal professore Raffaello Padovani, storico dell’arte.

 

 

Non dimentichiamo infine che Sofia Felissent stessa era una scultrice; una sua opera è il bassorilievo in marmo eseguito in memoria della figlia Maria morta precocemente. In esso appare il profilo di una donna molto giovane contornata dalle tre Parche o Moire greche: Cloto che fila il filo della vita, Lachesi che dispensa i fili del destino e Atropo che taglia il filo al momento prestabilito. Sull’opera c’è una scritta: “TUA MAMMA TUA” e in basso, sulla destra, la firma Sofia. E’ un ricordo in memoria della figlia morta giovanissima a 23 anni.

“Memoria di Maria” Sofia Felissent

Tante ed inaspettate coincidenze mi hanno portato ad aprire fascicoli da tempo chiusi, quasi a rendere immortale la  figura di questa donna o forse, più semplicemente, per riprendere le tracce da lei lasciate come le impronte su una casa, Villa Frida.
Come a dire “la  storia continua…” ed il passato vive nelle emozioni del presente  e della continuità futura.
Passato, presente e futuro dipendono dal nostro sguardo emozionale e possono coesistere nella nostra stanza mentale rendendoci capaci di vivere in simultanea emozioni future, presenti, passate. Questo sentire, per dirla alla Rovelli, è il nostro vedere offuscato del tempo che non esiste in sé, ma che prende forma nella nostra percezione emozionale dei ricordi. Tuttavia tutto ciò rappresenta anche la nostra ricchezza interiore di esseri umani perché, seppur con i limiti che questo atteggiamento comporta, in fondo viviamo di emozioni e con esse scandiamo il nostro tempo.


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SIPARIO APERTO SUL NATALE

 

DA VILLA FRIDA AUGURI DI BUON NATALE 2017

Stanza del “Cocchio di venere” o “Dei pappagalli”.
La parete nord della stanza presenta una soluzione decorativa illusionista: un riquadro dipinto a finte lesene con all’interno un doppio panneggio che richiama il sipario aperto di un teatro.  A sinistra  una porta vera, celata nel continuum architettonico dipinto.

Nell’800 cresce la simbiosi tra decorazioni di interni e altre specialità delle arti figurative. Il fenomeno è evidente nel caso del rapporto tra pittura e scenografia. Scrive Vincenzo Mancini: “ Nell’Ottocento emergono figure di decoratori e scenografi ( in primis Giuseppe Borsato, Alessandro Sanquirico e Francesco Bagnara operosi ………. indifferentemente nei teatri e nelle ville delle località di terraferma) che trasferiscono idee e soluzioni da un campo all’altro della loro attività……”


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MOSTRA A TREVISO SUI “CAPESARINI”

22 novembre-20 dicembre 2017

GINO ROSSI ARTURO MARTINI
e  i “capesarini” trevigiani del primo ‘900.

Galleria dell’artistico di Treviso

 La ricorrenza del settantesimo anniversario della morte di Gino Rossi e Arturo Martini ha indotto ad analizzare il contesto storico-artistico trevigiano di fine ‘800 e primi ‘900 con il quale i due grandi artisti si relazionavano.
Si è pensato, per una verifica e una puntualizzazione sull’argomento, di scandagliare precipuamente uno dei luoghi di maggior riferimento a cui hanno avuto accesso i nostri trevigiani; il più ricco di occasioni per incontri, scambi e confronti, ovvero il veneziano Palazzo Pesaro ove si svolsero, a partire dal 1908, le annuali mostre dell’Opera Bevilacqua La Masa, parallelamente con le Mostre d’Arte trevigiane.” R.Padovan, curatore della mostra.

Si tratta di una ricerca sulle opere e gli artisti trevigiani presenti a Ca’ Pesaro dal 1908, anno della prima esposizione veneziana fino al 1925, anno della XVI mostra nella quale espose per l’ultima volta Gino Rossi.

Come già ebbi modo di scrivere in un articolo di ottobre 2012, l’approfondimento della pittura veneta della seconda metà dell’800  e dei primi decenni del 900 è un capitolo aperto molto interessante. Basti ricordare che Venezia e anche Treviso, in quel periodo si presentavano artisticamente vivaci:
– 1895 la I BIENNALE D’ARTE A VENEZIA
1907 la I MOSTRA D’ ARTE TREVIGIANA
 1908 la I ESPOSIZIONE a CA’ PESARO
Ca’ Pesaro, luogo concepito per  sostenere i giovani talenti privi di mezzi economici, diventa punto di incontro di artisti ribelli e dei giovani non accolti alla Biennale.
Il Museo ha la fortuna di avere”….. a capo un giovane e brillante critico d’arte, Nino Barbantini, che eserciterà il suo mandato con spregiudicata e illuminata politica di valorizzazione di giovani talenti e di opposizione all’ufficialità pompier che stava affermandosi in Biennale.” G.Romanelli
Nell’articolo precedente avevo riportato questa frase: “Fin dalla prima mostra si vede la partecipazione di un gruppo di artisti trevigiani:  Giovanni Apollonio, Arturo Malossi, Arturo Martini, Giulio Ettore Erler, Gino Pinelli, Nino Springolo e l’anziano Noé Bordignon.” R. Gubitosi
Ora è stato fatto un passo in più nell’approfondimento:  la mostra “GINO ROSSI ARTURO MARTINI e i “capesarini “trevigiani del primo ‘900”  porta alla ribalta, mediante un lavoro di certosina ricerca, gli artisti presenti a Ca’ Pesaro dal 1908 al 1925; alcuni nomi sono molto noti altri sono finiti nell’oblio.
Per scoprirli non resta che fare una visita alla mostra.

“…riteniamo doveroso almeno richiamare al pubblico trevigiano e non solo, le loro figure che sono, comunque le si veda, alla base del nostro agire, vedere e pensare.” Raffaello Padovan

 


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La FILANDA

LA SCATOLA DEL SEME- BACHI

Avevo in casa questa scatola: era stata riutilizzata come contenitore di foto e questo è stato il motivo per cui è sopravvissuta.
Tra le varie fonti di reddito della famiglia Moresco c’era la filanda ubicata negli edifici annessi che comprendevano anche la vicina villa denominata Ca’ Zorzi; la scatola superstite ricorda il passato.
Il lavoro in filanda ha rappresentato una risorsa importante per numerose generazioni di donne. Entrando in filanda giovanissime, le operaie accedevano a diversi livelli di lavoro: scoatìna, ingropina e mistra

La scatola proviene da Vittorio Veneto , da un PREMIATO STABILIMENTO BACOLOGICO.
Se siete interessati, vi consiglio di fare un giretto  a San Giacomo di Veglia, vicino a Vittorio Veneto, dove, in una delle tante filande lì presenti, è stato istituito il MUSEO DEL BACO DA SETA.  Su un pannello del museo si può leggere: ” A partire dalla fine dell’800 sono sorti stabilimenti e osservatori bacologici di ricerca applicata cha hanno portato l’industria del seme bachi di Vittorio Veneto all’avangardia in campo nazionale……”
Si legge ancora: “….. è stato importato dal Giappone un primo quantitativo di seme bachi poliibrido….”
Recentemente ho rivisto il film del 2007 “SETA” del regista canadese François Girard, tratto dal romanzo di Alessandro Baricco che ne ha curato la sceneggiatura; guardatelo e trarrete spunti sul problema della malattia dei bachi da seta nell’ottocento e sulla necessità di andare in Giappone.
A palazzo Ca’ Pesaro a Venezia si trova il primo museo italiano di arte giapponese ricco di materiale collezionato nell’ottocento.

 


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L’ARMA DEL DELITTO.

DALL’ONORE DELLE ARMI ALL’USO DEI DRONI

spade e guantone duello cavallotti-Macola

SPADE E GUANTONE UTILIZZATI NEL DUELLO CAVALLOTTI – MACOLA.
 LA SECONDA SCIABOLA DA DESTRA, CON LA PUNTA RITORTA, PROVOCÒ LA MORTE DI CAVALLOTTI
Le armi del delitto si trovano al Museo Criminologico di Roma; nel sito web del museo si può leggere la descrizione del duello.Museo criminologico, via del Gonfalone 29, RomaChi erano i contendenti?
Nato nel 1842, il deputato Felice Cavallotti iniziò l’attività parlamentare nel 1873 e la porto’ avanti per ben venticinque anni. Dal 1885 raggiunse una vastissima popolarità politica, amplificata anche dai numerosi duelli che affrontava a causa degli attacchi che rivolgeva ai suoi avversari.  A porre fine alla carriera e alla sua vita intervenne un nuovo duello, il trentatreesimo della sua vita. A provocarlo fu il direttore del Gazzettino di Venezia, Ferruccio Macola, in precedenza grande ammiratore di Cavallotti.
Il deputato Ferruccio Macola si scontrò ripetutamente con l’antico amico, accusandolo, dalle pagine del Gazzettino, di assumere atteggiamenti politici ambigui. Entrambi determinati a rifiutare ogni ipotesi di rappacificazione, i due accettarono di sfidarsi a duello.
I padrini di Macola pretesero che il duello dovesse combattersi con le spade e con l’uso del guantone. Cavallotti partiva svantaggiato rispetto all’avversario, che era di vent’anni più giovane, più alto di statura e molto più esperto nel maneggiare la spada. Nonostante l’opposizione dei padrini di Cavallotti, prevalse la proposta dello sfidato, Macola. Il duello si svolse fuori porta, nella villa della contessa Cellere, nel primo pomeriggio del 6 marzo 1898. Lo scontro durò pochi minuti, Macola si difendeva bene, a braccio teso, protetto dal guantone di cuoio, dagli affondi dello sfidante. Al terzo assalto, Cavallotti fu ferito alla bocca dalla punta della spada dell’avversario. L’arma penetrò nello spazio degli incisivi, persi da Cavallotti in un precedente duello, recidendogli la carotide. Egli ebbe solo il tempo di dire: “Cosa ghè?”. Un fiotto di sangue sgorgò dalle labbra e, dopo pochi minuti, morì.
(Rielaborazione personale del testo presente al Museo Criminologico di Roma)DUELLO A VILLA CELLERE A ROMA TRA MACOLA E CAVALLOTTIDa un articolo di  Focus.it : “In guardia! Ti sfidiamo….a duello.”:   Nell’800 la cronaca pullulava di duelli politici ben più pericolosi dei battibecchi che siamo abituati a vedere a Porta a porta. Basti pensare a Felice Cavallotti, deputato socialista e acerrimo nemico dell’ex presidente del Consiglio Crispi, che morì nel 1898 per mano, armata di sciabola, di un parlamentare di parte governativa, il conte Ferruccio Macola: il duello fu combattuto a condizioni durissime a causa della gravità delle offese che i due si erano scambiati.
Ma la consuetudine di risolvere sul filo di una lama le questioni pubbliche e private ha origini molto più antiche. «Anche se va detto che il duello d’onore non è stato materialmente inventato da nessuno: è piuttosto l’espressione di un certo tipo di società, animata dall’antica etica cavalleresca e feudale che resistette in Europa per almeno mezzo millennio» precisa Cavina.

Oggi l’etica cavalleresca con le regole scritte alle quali dovevano sottostare gli sfidanti è stata sostituita dall’impersonalità del combattimento con l’uso dei robot.

Qual è oggi l’arma del delitto? Si chiama PREDATOR.
Si tratta di un drone che ha fatto il suo esordio durante la guerra in Bosnia a metà degli anni novanta, in dotazione alle forze armate USA.  Negli anni seguenti l’11 settembre 2001, i droni sono diventati un elemento  centrale della strategia americana, ma anche di diversi altri paesi. Hanno affiancato le truppe USA in Libia, Afghanistan, Iraq e non solo. Il libro “I robot ci guardano” di N.Nosengo riporta i dati tratti dal Washington Post e dal Bureau of Investigative Journalisme riguardanti le persone uccise con l’uso di droni.

Predator-Drone-predatorPredator

 

 

L’effetto più profondo del crescente uso militare dei droni è quella “deumanizzazione” della guerra di cui hanno parlato, in molte interviste, gli stessi piloti che li manovrano.
La distanza dal bersaglio dei propri attacchi, ridotto a poco più di una figurina che si muove su uno schermo come il personaggio di un videogioco, e la totale assenza di rischio personale per chi combatte usando un drone, trasformano di fatto la guerra in qualcosa di completamente diverso da quello che è stato in passato: rimane sempre una tragedia, in cui il rischio di perdere la propria vita costringeva quanto meno a considerare che cosa comporti sopprimerne un’altra. ” tratto da “I robot ci guardano” di N.Nosengo

La morte di Felice Cavallotti procurò al conte Ferruccio Macola rimorsi, ripercussioni sulla sua carriera politica. “Morfina ed alcol erano ormai diventate il rifugio delle sue amarezze………” .
Pose fine alle sue sofferenze sparandosi due colpi alla tempia destra il 18 agosto 1910.

Il processo evolutivo del nostro cervello non può essere stato così rapido da portare, nel giro di un secolo, ad un cambiamento tale da farci rimanere impassibili di fronte alla uccisione di umani. Tuttavia la spersonalizzazione messa in atto quando ci troviamo di fronte ad uno schermo, anche televisivo, rende le azioni vicine a volte a sogni, altre  volte a giochi; ed  è  così che l’individuo si “salva” dall’effetto negativo che su di lui potrebbe avere la sua decisione.
Basta premere invio.

 


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REPORTAGES AFRICANI DEL CONTE FERRUCCIO MACOLA: Adua 1896

 

Primo colonialismo nel Corno d’Africa
Giornalista: conte Ferruccio Macola (1861-1910)

Il Conte Ferruccio Macola (1861-1910)
Nel 1887  Ferruccio Macola, già fondatore e  direttore del Secolo XIX, in riferimento alla sconfitta di Dogali, realizzò un reportage africano per il suo giornale e per il “Capitan Fracassa“, giornale letterario e satirico uscito a Roma fin dal 1880.
Nel 1896 , tornato in Africa, scrisse di nuovo parecchi  articoli in riferimento questa volta alla disfatta di Adua.
Leggere la storia attraverso i giornali dell’epoca, in particolare attraverso gli articoli molto partecipati di Macola, aiuta a osservare gli eventi da una prospettiva più umana e a sentirli più vicini ad oggi. In questo mio articolo, dopo una breve ricostruzione storica, riporto due reportages di Macola tra i tanti che si possono leggere.

Possessions_italiennes_en_Afrique-1896

-Già dal 1869, con la costruzione del canale di Suez, si modifica il quadro delle rotte navali. Nel novembre dello stesso anno  La Compagnia di Navigazione Genovese Rubattino acquista la baia di Assab sulla costa africana meridionale del mar Rosso.-

-Nel 1882 L’Italia acquista la stazione navale dalla compagnia Rubattino, che tre mesi dopo diverrà il primo nucleo dell’Eritrea, base per un futuro impero coloniale in Africa.

Nel 1887 l’attacco di ras Alula, generale etiope, ad uno sperduto fortino italiano viene respinto con gravi perdite. La colonna di rinforzi di 500 soldati, al comando del colonnello de Cristoforis, intercettata da 10.000 etiopi, si sacrifica (460 morti) nella piana di Dogali in Eritrea. Il conte Macola, dopo la disfatta nella battaglia di Dogali del 1887 che grande eco suscita in Italia, decise di partire come inviato speciale per l’Africa italiana. Fu espulso pochi mesi dopo per i suoi attacchi giornalistici contro le nostre autorità militari, da lui accusate di incapacità strategica. Una volta in Italia continuò a scrivere diversi articoli sia sul Secolo XIX che sul Capitan Fracassa.

-Nel 1895  Macola divenne deputato della Destra; nel 1896 rientrò in Africa ove, a distanza di nove anni dalla precedente disfatta, ebbe occasione di assistere (e sopravvivere) alla catastrofe di Adua, nell’ 1 marzo 1896. Tre delle quattro colonne italiane inviate ad occupare Adua vengono annientate. Muoiono circa 5.000 italiani. Cade il governo Crispi. Tra i caduti figura anche Luigi Bocconi, figlio di Ferdinando Bocconi, fondatore dell’Università commerciale “Luigi Bocconi” intitolata al figlio.

Dal Corriere della Sera, 6-7, 7-8 marzo 1896articolo telegrafato da Ferruccio Macola da Massaua www.giornalismoestoria.it  (L’articolo fa riferimento alla grave sconfitta di Adua del giorno 1 marzo 1896):
Riservandomi di farvi pervenire per altra via fra tre giorni , i precedenti della giornata fatale, che spiegano fino ad un certo punto le cause morali e materiali della disfatta, vi mando da Massaua qualcheparticolare. Partito da Sauria sette giorni fa, persuaso che le nostre truppe dovettero ritirarsi, essendo troppo azzardoso attaccare il nemico già lontano, e anche per le minacce delle bande defezionate che turbavano i servizi logistici, fui successivamente a Mai Marat, a Barachit e a Senafè. Dopo due ore dalla mia partenza da Sauria incontrai colonne di munizioni e salmerie che ritornavano da Debra Damo, dove Baratieri le aveva dirette, per non inceppare la via di ritirata. Un improvviso contr’ordine aveva arrestato quella marcia, e le munizioni e le salmerie tornavano lente essendo le bestie stanche e malandate come i soldati marcianti carichi di tende e altri impedimenti, i quali facevano loro rimpiangere lo zaino. I posti di abbeveramento, rari e distanti varie ore uno dall’altro, trattenevano a lungo quella massa vivente assetata dal caldo della giornata. Soffocante pure era il polverio della strada; così le otto ore di marcia diventavano 24, e più anche, per il cammino lentissimo dei cammelli trascinantisi lungo le vie erte, ripide, franose, aperte sui fianchi dei monti arroventati da sole. Seppimo che nelle regioni da noi attraversate vi era molta paura per le rappresaglie dei nostri, cui fummo obbligati dopo la fine miseranda degli ufficiali del posto di Alequà. Vi furono terribili, quanto tardi, esempi dati dal battaglione Valli, il quale incendiò i paesi e fucilò gli ostaggi presi da tutti i villaggi dell’Agamè. Il colonnello Stevani a Mai Marat faceva fucilare sette ribelli, presi con le armi in mano, compreso un prete. Questi esempi ritardavano almeno il desiderio della rivolta nelle popolazioni; però la via era sempre malsicura. (…) Alla sera del primo marzo un dispaccio confuso, proveniente da Mai Marat annunziava all’intendente colonnello Ripamonti, l’esito sfavorevole dello scontro avvenuto. Si sapeva già che Baratieri doveva avanzare, da dispacci precedenti, i quali invitavano il Ripamonti a mandare d’urgenza, in nome di supreme necessità, viveri, munizioni e ambulanze. Restammo desolati. La mattina dopo l’intendente venne fino alla tenda mia e di Mercatelli ad annunziarci che l’intero corpo d’operazione era in piena rotta. Lo diceva un dispaccio della stessa fonte in quel momento arrivato. Di più non si sapeva. Salii al forte improvvisato e verso le nove e mezza vedemmo apparire a cavallo con le bestie sfatte per la fatica il capitano Caviglia e i tenenti Bodrero e Pavoni, questo ferito di una palla al petto, tutti appartenenti al quartiere generale, stracciati, esauriti, che scesero con difficoltà e alle nostre prime domande risposero a bassa voce: “E’ tutto finito. Il corpo d’operazione è distrutto”. Entrammo con l’intendente e pochi ufficiali sotto la frascata che serviva da mensa e udimmo il racconto dei reduci venuti dopo 22 ore di cavallo. (…) In poche ore ventimila uomini erano stati dispersi o distrutti da orde senza cannoni, senza baionette, ma accorrenti all’assalto con coraggio selvaggio, bramante la morte. Evidentemente dovevano cercarsi le cause del disastro non nelle sole condizioni fisiche e morali del soldato, e di ciò telegraferò a parte, ma nelle deficienze e mancanze di criteri direttivi e ad errori di distribuzione delle nostre forze. Infatti si lasciò impegnare a fondo la brigata Albertone, formata dai nostri valorosi battaglioni ascari e quattro batterie guidate da brillanti ufficiali. Gli ascari si battevano contro tutto l’esercito scioano, furioso nell’attacco. I nostri ufficiali cadevano uno ad uno, bersaglio fin da principio ai continui, costanti colpi del nemico. ”

Tra le varie cause della sconfitta sembra sia intervenuta anche la modifica dell’armamento dei nostri soldati. La truppa italiana fu dotata del vecchio modello del fucile WetterliVitali, che da tanto tempo non si adottava più, in quanto la maggior parte delle unità aveva qualche tempo prima ricevuto in dotazione quello, molto più efficiente, mod. 91. (www.carabinieri.it)

Scrisse a questo proposito Ferruccio Macola in una corrispondenza al Corriere di Napoli del 1896:

Noi abbiamo in Italia come armamento, il migliore fucile del mondo: quello modello 91; ha un tiro radente fino ad oltre i 700 metri; ha una portata assolutamente straordinaria; una capacità di penetrazione che non ha esempio e un calibro minimo; ciò che permette di duplicare quasi il corredo di cartucce del soldato. Quale migliore occasione per esperimentare il nuovo fucile, mandando truppe che ormai lo avevano ricevuto e conosciuto? Oibò! A combattere quei quattro predoni il wetterly era più che sufficiente; e magari i moschetti wetterly dati agli ascari; arma imperfetta e poco precisa e inferiore alle esigenze della guerra, perché non permette un fuoco efficace che a brevi distanze. Ebbene, che fa il Ministero? A Napoli toglie il fucile anche ai battaglioni che già lo avevano; e così; mentre noi avevamo insegnato fino ad allora al soldato che il suo fucile era migliore del mondo che al suo confronto il wetterly diventava un catenaccio, più tardi, quando il soldato sapeva che avrebbe dovuto battersi, tanto per rialzare il suo morale lo si privava di un arma da lui giustamente ritenuta formidabile e gli si ridava il catenaccio! Ad Adigrat si son visti così interi battaglioni costretti a fare esercizio di punteria, perché erano formati almeno in parte di soldati appartenenti a leve, che non avevano sentito parlare del wetterly se non attraverso le denigrazioni dei loro superiori”

Sembra che la scelta del fucile-catenaccio fu giustificata dalla necessità di evitare gli oneri di un doppio munizionamento, dato che gli ascari, militi indigeni, avevano quel vecchio modello. Questa la giustificazione ufficiale che aveva dovuto far posto a quella ufficiosa: non avevamo abbastanza cartucce e distribuirle avrebbe significato lasciare i reparti in madrepatria senza sufficiente munizionamento.