villa frida

Palazzo del XIX secolo, luogo di spunto per conversazioni su storia, arte, scienza e idee tra due secoli.

REPORTAGES AFRICANI DEL CONTE FERRUCCIO MACOLA: Adua 1896

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Primo colonialismo nel Corno d’Africa
Giornalista: conte Ferruccio Macola (1861-1910)

Il Conte Ferruccio Macola (1861-1910)
Nel 1887  Ferruccio Macola, già fondatore e  direttore del Secolo XIX, in riferimento alla sconfitta di Dogali, realizzò un reportage africano per il suo giornale e per il “Capitan Fracassa“, giornale letterario e satirico uscito a Roma fin dal 1880.
Nel 1896 , tornato in Africa, scrisse di nuovo parecchi  articoli in riferimento questa volta alla disfatta di Adua.
Leggere la storia attraverso i giornali dell’epoca, in particolare attraverso gli articoli molto partecipati di Macola, aiuta a osservare gli eventi da una prospettiva più umana e a sentirli più vicini ad oggi. In questo mio articolo, dopo una breve ricostruzione storica, riporto due reportages di Macola tra i tanti che si possono leggere.

Possessions_italiennes_en_Afrique-1896

-Già dal 1869, con la costruzione del canale di Suez, si modifica il quadro delle rotte navali. Nel novembre dello stesso anno  La Compagnia di Navigazione Genovese Rubattino acquista la baia di Assab sulla costa africana meridionale del mar Rosso.-

-Nel 1882 L’Italia acquista la stazione navale dalla compagnia Rubattino, che tre mesi dopo diverrà il primo nucleo dell’Eritrea, base per un futuro impero coloniale in Africa.

Nel 1887 l’attacco di ras Alula, generale etiope, ad uno sperduto fortino italiano viene respinto con gravi perdite. La colonna di rinforzi di 500 soldati, al comando del colonnello de Cristoforis, intercettata da 10.000 etiopi, si sacrifica (460 morti) nella piana di Dogali in Eritrea. Il conte Macola, dopo la disfatta nella battaglia di Dogali del 1887 che grande eco suscita in Italia, decise di partire come inviato speciale per l’Africa italiana. Fu espulso pochi mesi dopo per i suoi attacchi giornalistici contro le nostre autorità militari, da lui accusate di incapacità strategica. Una volta in Italia continuò a scrivere diversi articoli sia sul Secolo XIX che sul Capitan Fracassa.

-Nel 1895  Macola divenne deputato della Destra; nel 1896 rientrò in Africa ove, a distanza di nove anni dalla precedente disfatta, ebbe occasione di assistere (e sopravvivere) alla catastrofe di Adua, nell’ 1 marzo 1896. Tre delle quattro colonne italiane inviate ad occupare Adua vengono annientate. Muoiono circa 5.000 italiani. Cade il governo Crispi. Tra i caduti figura anche Luigi Bocconi, figlio di Ferdinando Bocconi, fondatore dell’Università commerciale “Luigi Bocconi” intitolata al figlio.

Dal Corriere della Sera, 6-7, 7-8 marzo 1896articolo telegrafato da Ferruccio Macola da Massaua www.giornalismoestoria.it  (L’articolo fa riferimento alla grave sconfitta di Adua del giorno 1 marzo 1896):
Riservandomi di farvi pervenire per altra via fra tre giorni , i precedenti della giornata fatale, che spiegano fino ad un certo punto le cause morali e materiali della disfatta, vi mando da Massaua qualcheparticolare. Partito da Sauria sette giorni fa, persuaso che le nostre truppe dovettero ritirarsi, essendo troppo azzardoso attaccare il nemico già lontano, e anche per le minacce delle bande defezionate che turbavano i servizi logistici, fui successivamente a Mai Marat, a Barachit e a Senafè. Dopo due ore dalla mia partenza da Sauria incontrai colonne di munizioni e salmerie che ritornavano da Debra Damo, dove Baratieri le aveva dirette, per non inceppare la via di ritirata. Un improvviso contr’ordine aveva arrestato quella marcia, e le munizioni e le salmerie tornavano lente essendo le bestie stanche e malandate come i soldati marcianti carichi di tende e altri impedimenti, i quali facevano loro rimpiangere lo zaino. I posti di abbeveramento, rari e distanti varie ore uno dall’altro, trattenevano a lungo quella massa vivente assetata dal caldo della giornata. Soffocante pure era il polverio della strada; così le otto ore di marcia diventavano 24, e più anche, per il cammino lentissimo dei cammelli trascinantisi lungo le vie erte, ripide, franose, aperte sui fianchi dei monti arroventati da sole. Seppimo che nelle regioni da noi attraversate vi era molta paura per le rappresaglie dei nostri, cui fummo obbligati dopo la fine miseranda degli ufficiali del posto di Alequà. Vi furono terribili, quanto tardi, esempi dati dal battaglione Valli, il quale incendiò i paesi e fucilò gli ostaggi presi da tutti i villaggi dell’Agamè. Il colonnello Stevani a Mai Marat faceva fucilare sette ribelli, presi con le armi in mano, compreso un prete. Questi esempi ritardavano almeno il desiderio della rivolta nelle popolazioni; però la via era sempre malsicura. (…) Alla sera del primo marzo un dispaccio confuso, proveniente da Mai Marat annunziava all’intendente colonnello Ripamonti, l’esito sfavorevole dello scontro avvenuto. Si sapeva già che Baratieri doveva avanzare, da dispacci precedenti, i quali invitavano il Ripamonti a mandare d’urgenza, in nome di supreme necessità, viveri, munizioni e ambulanze. Restammo desolati. La mattina dopo l’intendente venne fino alla tenda mia e di Mercatelli ad annunziarci che l’intero corpo d’operazione era in piena rotta. Lo diceva un dispaccio della stessa fonte in quel momento arrivato. Di più non si sapeva. Salii al forte improvvisato e verso le nove e mezza vedemmo apparire a cavallo con le bestie sfatte per la fatica il capitano Caviglia e i tenenti Bodrero e Pavoni, questo ferito di una palla al petto, tutti appartenenti al quartiere generale, stracciati, esauriti, che scesero con difficoltà e alle nostre prime domande risposero a bassa voce: “E’ tutto finito. Il corpo d’operazione è distrutto”. Entrammo con l’intendente e pochi ufficiali sotto la frascata che serviva da mensa e udimmo il racconto dei reduci venuti dopo 22 ore di cavallo. (…) In poche ore ventimila uomini erano stati dispersi o distrutti da orde senza cannoni, senza baionette, ma accorrenti all’assalto con coraggio selvaggio, bramante la morte. Evidentemente dovevano cercarsi le cause del disastro non nelle sole condizioni fisiche e morali del soldato, e di ciò telegraferò a parte, ma nelle deficienze e mancanze di criteri direttivi e ad errori di distribuzione delle nostre forze. Infatti si lasciò impegnare a fondo la brigata Albertone, formata dai nostri valorosi battaglioni ascari e quattro batterie guidate da brillanti ufficiali. Gli ascari si battevano contro tutto l’esercito scioano, furioso nell’attacco. I nostri ufficiali cadevano uno ad uno, bersaglio fin da principio ai continui, costanti colpi del nemico. ”

Tra le varie cause della sconfitta sembra sia intervenuta anche la modifica dell’armamento dei nostri soldati. La truppa italiana fu dotata del vecchio modello del fucile WetterliVitali, che da tanto tempo non si adottava più, in quanto la maggior parte delle unità aveva qualche tempo prima ricevuto in dotazione quello, molto più efficiente, mod. 91. (www.carabinieri.it)

Scrisse a questo proposito Ferruccio Macola in una corrispondenza al Corriere di Napoli del 1896:

Noi abbiamo in Italia come armamento, il migliore fucile del mondo: quello modello 91; ha un tiro radente fino ad oltre i 700 metri; ha una portata assolutamente straordinaria; una capacità di penetrazione che non ha esempio e un calibro minimo; ciò che permette di duplicare quasi il corredo di cartucce del soldato. Quale migliore occasione per esperimentare il nuovo fucile, mandando truppe che ormai lo avevano ricevuto e conosciuto? Oibò! A combattere quei quattro predoni il wetterly era più che sufficiente; e magari i moschetti wetterly dati agli ascari; arma imperfetta e poco precisa e inferiore alle esigenze della guerra, perché non permette un fuoco efficace che a brevi distanze. Ebbene, che fa il Ministero? A Napoli toglie il fucile anche ai battaglioni che già lo avevano; e così; mentre noi avevamo insegnato fino ad allora al soldato che il suo fucile era migliore del mondo che al suo confronto il wetterly diventava un catenaccio, più tardi, quando il soldato sapeva che avrebbe dovuto battersi, tanto per rialzare il suo morale lo si privava di un arma da lui giustamente ritenuta formidabile e gli si ridava il catenaccio! Ad Adigrat si son visti così interi battaglioni costretti a fare esercizio di punteria, perché erano formati almeno in parte di soldati appartenenti a leve, che non avevano sentito parlare del wetterly se non attraverso le denigrazioni dei loro superiori”

Sembra che la scelta del fucile-catenaccio fu giustificata dalla necessità di evitare gli oneri di un doppio munizionamento, dato che gli ascari, militi indigeni, avevano quel vecchio modello. Questa la giustificazione ufficiale che aveva dovuto far posto a quella ufficiosa: non avevamo abbastanza cartucce e distribuirle avrebbe significato lasciare i reparti in madrepatria senza sufficiente munizionamento.

Autore: villafrida

Villa Frida è un palazzo padronale risalente al XIX secolo ma prima di tutto è luogo di infanzia, di storia, di personaggi veri ( Macola che uccide Cavallotti in duello, Sofia Felissent e la sua vita molto sofferta e vissuta) e di fantasia con le figure di Noè Bordignon che sembra escano dal sofftto. Esso appare per la prima volta nelle mappe catastali austriache per cui la sua edificazione ad opera della famiglia Moresco avviene tra il 1820 e il 1842. Secondo la tradizione, a dipingere le stanze di villa Frida sarebbe stato Noé Bordignon. La dimora viene citata in occasione del matrimonio, avvenuto nel 1900, tra Maria Moresco (figlia di Sofia Félissent e Pasquale Moresco) e il conte Ferruccio Macola.

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